Colonialismo

Nella sua accezione più ampia, il colonialismo può essere definito come dominazione di un popolo da parte di stranieri di diversa provenienza culturale. Potrebbero quindi rientrarvi tutti i fenomeni di espansione territoriale nelle grandi regioni del mondo sin dalla Preistoria. Il colonialismo europeo, specificatamente, si caratterizza per tre elementi. Prima di tutto, il rapporto di dominazione sui territori lontani veniva esercitato in funzione degli interessi, generalmente economici, di centri metropolitani. Secondariamente, colonizzatori e colonizzati rimasero estranei gli uni agli altri: se per gli Imperi macedone, persiano, romano, arabo, mongolo e ottomano le conquiste avevano spesso preluso all'assimilazione dell'invasore da parte delle società sottomesse, l'espansionismo europeo non produsse mai questi effetti. Questa mancata fusione tra conquistatori e conquistati nel XIX secolo era giustificata da una gerarchizzazione razziale, considerata inevitabile e insormontabile (razzismo). In terzo luogo, dal XVI secolo il colonialismo dell'Europa fu elevato a ideologia che glorificava il conseguimento di una missione: quella «civilizzatrice» dell'uomo europeo che, investito di una presunta superiorità tecnica e culturale (progresso, progresso tecnico), aveva il diritto e il dovere di imporsi su popoli considerati inferiori.

Su queste premesse, tra l'inizio del XV secolo e la fine degli anni 1930 l'Europa colonizzatrice, di dimensioni relativamente contenute, estese il proprio dominio su quasi metà delle terre abitate. Occorre sottolineare sia il lasso di tempo entro il quale si costituirono questi Imperi coloniali – la conquista, l'occupazione dello spazio e il controllo dei popoli preesistenti l'arrivo degli Europei in Asia e in Africa solitamente avvennero nell'arco di più di due secoli –, sia la repentinità del loro crollo dopo la seconda guerra mondiale. In meno di vent'anni, quasi un centinaio di colonie ottenne l'indipendenza (decolonizzazione), dando vita a quello che allora venne definito Terzo mondo. Il brusco collasso di questi Imperi può spiegarsi con la fragilità dei regimi coloniali, instaurati in territori troppo vasti per poter essere controllati da un numero ristretto di Europei residenti in loco (emigrazione).

Le général de Meuron en palanquin. Disegno acquerellato, 1800 ca., 11,3 x 46 cm (Musée d’art et d’histoire Neuchâtel; fotografia Germond).
Le général de Meuron en palanquin. Disegno acquerellato, 1800 ca., 11,3 x 46 cm (Musée d’art et d’histoire Neuchâtel; fotografia Germond). […]

Svizzeri e Svizzere nell'impresa coloniale

Il fatto che la Svizzera non abbia mai posseduto colonie o mantenuto una flotta navale per la tratta di persone ridotte in schiavitù non significa che singoli o aziende svizzere non abbiano preso parte all'espansionismo europeo. Il caso svizzero si distingue in particolare per la posizione delle autorità elvetiche, che evidenziano sistematicamente l'estraneità del Paese al gruppo di potenze colonizzatrici, oscurando, invece, l'intreccio di suoi cittadini nell'impresa coloniale.

L'implicazione di Svizzeri e Svizzere nel sistema coloniale, nella tratta e nella schiavizzazione di Africani e Africane si colloca nella storia delle relazioni tra la Svizzera e i territori oltremare. Gli studi in questo campo, ancora piuttosto rari, hanno permesso di stabilire che avventurieri, emigranti, militari, commercianti, missionarie e missionari, amministratori e investitori svizzeri furono coinvolti in imprese colonialiste e che nell'espansionismo europeo la Svizzera non rimase in disparte. Questi risultati della ricerca hanno tardato ad affermarsi.

Combats et Jeux des Nègres di François Aimé Louis Dumoulin. Acquerello, 1788, 25,5 x 35,5 cm (Musée historique de Vevey, Inv. 3493).
Combats et Jeux des Nègres di François Aimé Louis Dumoulin. Acquerello, 1788, 25,5 x 35,5 cm (Musée historique de Vevey, Inv. 3493). […]

Gli autori e le autrici di tali studi tracciano il quadro di una Svizzera «provincializzata», facendola, cioè, rientrare nei ranghi e togliendo al «caso svizzero» la sua presunta eccezionalità. Come altri Europei, ripercorrendo il passato gli Svizzeri trovano loro connazionali tra i commercianti attivi nella tratta atlantica (commercio marittimo), i proprietari e le proprietarie di piantagioni schiaviste, tra chi glorificava la colonizzazione, ma pure tra militanti abolizionisti (abolizionismo) e difensori delle popolazioni indigene oppresse (Guillaume de Pury). Analogamente ad altri cittadini dell'Europa non coloniale, anche quelli svizzeri riuscirono a inserirsi nelle reti globali dove circolavano esseri umani, merci e capitali (globalizzazione), reti generate dalle costruzioni imperiali nei territori d'oltremare. Normalizzando quindi il coinvolgimento della Svizzera nell'impresa coloniale, il Paese perde la sua aura di caso speciale (Sonderfall).

Questo intreccio si declinò in varie forme. Dall'inizio del XVII secolo, mercenari svizzeri (servizio mercenario) parteciparono a conquiste coloniali o a operazioni di mantenimento dell'ordine colonialista. Nel cosiddetto Nuovo Mondo soldati di origini confederate furono ingaggiati nell'assoggettamento dell'America del nord. In alcune colonie olandesi di piantagione guidarono campagne per domare rivolte di persone schiavizzate. Nel 1801-1803 un battaglione svizzero prese parte a una spedizione francese per reprimere l'insurrezione di Toussaint Louverture a Saint-Domingue (Haiti), nel tentativo di non perdere la colonia, sul punto di emanciparsi, e di reinstallarvi la schiavitù.

In Asia, la Compagnia olandese delle Indie orientali, che fondò una serie di basi mercantili e agenzie a Ceylon (Sri Lanka), sulle isole asiatiche sud-orientali, sulla penisola malese (Malaysia) e sulle coste del subcontinente indiano (India), reclutò soldati svizzeri. Ingaggiò addirittura un intero reggimento elvetico, quello dei fratelli Charles-Daniel e Pierre-Frédéric de Meuron, di Neuchâtel. Mercenari svizzeri entrarono pure al servizio della Compagnia britannica delle Indie orientali e combatterono contro i Francesi per spartirsi il controllo di regioni del subcontinente.

Cargaison du navire Le Necker. Manoscritto, 1789, 33,5 x 20,8 cm (Historisches Museum Basel, Inv. 1988.264.a-b).
Cargaison du navire Le Necker. Manoscritto, 1789, 33,5 x 20,8 cm (Historisches Museum Basel, Inv. 1988.264.a-b). […]

Sul continente africano soldati svizzeri sono attestati dapprima in Sudafrica, poi in Marocco, Egitto e Algeria nel contesto della conquista francese. Negli anni 1880 l'esercito di Leopoldo II, re dei Belgi, autoproclamatosi sovrano assoluto del Congo, annoverò una ventina di ufficiali svizzeri, tra cui Erwin Federspiel; rientrato in Svizzera, quest'ultimo difese in un opuscolo (Wie es im Congostaat zugeht: Skizzen, 1909) il regime di sfruttamento brutale e predatorio instaurato dal monarca belga.

I mercenari svizzeri al soldo delle potenze coloniali non partivano soli. Erano accompagnati da amministratori, mercanti, artigiani, ingegneri, medici, insegnanti, missionarie e missionari. Accanto a questi migranti, generalmente temporanei, vi erano uomini e donne in povertà che lasciavano la Svizzera in gruppi organizzati per stabilirsi definitivamente nelle lontane «terre promesse». In relazione agli effettivi umani mobilizzati dall'Europa coloniale in cinque secoli per comandare e popolare i ca. 160 possedimenti oltremare disseminati nel mondo, l'entità di questi flussi migratori è irrisoria.

Per quanto riguarda l'implicazione di cerchie economiche svizzere nella tratta di schiavi e schiave e nel commercio transatlantico si hanno indicazioni sufficienti per affermare, nonostante la situazione precaria delle fonti, che durante gran parte del XVIII e il primo terzo del XIX secolo degli Svizzeri, spesso legati al mondo della finanza ugonotto (rifugiati per fede), furono coinvolti nella tratta. Si potrebbe categorizzarli in questo modo: i fabbricanti e commercianti che dalla Svizzera fornivano le merci della tratta, prevalentemente indiane, scambiate sulle coste occidentali dell'Africa contro persone catturate per essere ridotte in schiavitù; i produttori di indiane di origine svizzera che trasferirono il baricentro delle loro attività in prossimità dei luoghi di scambio, in particolare a Nantes, primo porto della tratta in Francia; faccendieri svizzeri che, finanziando le spedizioni, aggiungevano il commercio di persone schiavizzate alla gamma delle loro vaste attività economiche.

Inneres eines Entkörnungswerkes in Nagpur (Central-Indien) [«Interno di una fabbrica di sgranatura del cotone a Nagpur (India centrale)»]. Fotografia, 1914 (Stadtarchiv Winterthur, Dep 42/1840.16).
Inneres eines Entkörnungswerkes in Nagpur (Central-Indien) [«Interno di una fabbrica di sgranatura del cotone a Nagpur (India centrale)»]. Fotografia, 1914 (Stadtarchiv Winterthur, Dep 42/1840.16). […]

In verità i confini tra i vari settori di attività erano fluidi e nella maggioranza dei casi gli attori appartenevano a più gruppi, muovendosi agilmente tra uno e l'altro. Operavano in seno ad aziende, di cui le principali erano originarie di Basilea (Christoph Burckhardt & Cie, Christoph Burckhardt; Emmanuel et Nicolas Weis et fils, Riedy & Thurninger; Kuster & Pelloutier; Simon & Roques), Neuchâtel (Favre-Petitpierre & Cie; Pourtalès et Cie, Pourtalès; Gorgerat Frères & Cie) e Ginevra (Labat Frères, Rivier & Cie, Jean-Louis Baux & Cie). Alcune fornivano tutti i servizi e le attività necessarie al funzionamento del commercio triangolare: produzione e vendita di merci della tratta, transazioni di esseri umani, commercializzazione di derrate coloniali (zucchero, caffè, cacao). Altre si specializzarono nel commercio delle materie prime indispensabili per la fabbricazione delle indiane: coloranti provenienti dalle Americhe (indaco, cocciniglia, legno di Campeche; tintoria), gomma arabica dalla costa occidentale africana (Senegal) e tele bianche dall'India, il prodotto base per i tessuti stampati.

Le operazioni finanziarie nel settore della tratta atlantica avvenivano in maniera più lineare. Installato a Lisbona, il neocastellano David de Pury, ad esempio, era azionista di una compagnia portoghese, detentrice di una concessione statale che le accordava un monopolio commerciale, tra l'altro sulla tratta di uomini e donne, deportati dalle coste dell'Angola verso le piantagioni in Brasile. Le banche iniettavano capitali secondo la stessa modalità. Gli istituti Marcuard & Cie e Zeerleder & Cie di Berna figurano sull'elenco degli azionisti della Compagnia francese delle Indie, che promosse oltre 130 spedizioni dalle coste atlantiche. Tra i numerosi clienti di Tourton & Baur e Mallet frères & Cie, due grandi banche parigine con connessioni ginevrine, a Rouen, Le Havre, Bordeaux e Nantes furono ben rappresentati uomini d'affari francesi (come David Chauvel e Charles Mangon Laforest) con importanti partecipazioni nella tratta di schiave e schiavi e nel commercio con le colonie. Le città di Berna e Zurigo, dal canto loro, acquisirono azioni della South Sea Company, con sede a Londra, che organizzava la vendita di persone schiavizzate alle colonie spagnole sul continente americano. Alla stessa stregua investitori privati e istituzionali svizzeri acquistarono obbligazioni emesse dal governo della Danimarca, destinate in parte a rilanciare l'economia di piantagione schiavista sull'isola di Saint Thomas nelle Antille danesi.

Plan cadastral d'Aïn-Arnat. Litografia stampata presso Charles Pilet & Cougnard a Ginevra, aprile 1854, 55 x 70 cm (Archives cantonales vaudoises, Société des Amis du château de La Sarraz – Musée Romand, PP111/96).
Plan cadastral d'Aïn-Arnat. Litografia stampata presso Charles Pilet & Cougnard a Ginevra, aprile 1854, 55 x 70 cm (Archives cantonales vaudoises, Société des Amis du château de La Sarraz – Musée Romand, PP111/96). […]

Per gli Svizzeri l'attività nella tratta atlantica era spesso parallela a quella nelle reti coloniali, come illustra la loro presenza nel sistema delle piantagioni schiaviste americane. Nel XVIII  e XIX secolo Ginevrini, Basilesi, Sangallesi, Vodesi e Zurighesi erano proprietari di piantagioni nelle colonie spagnole, britanniche, francesi, olandesi e in Brasile. Talvolta le sfruttavano direttamente (ad esempio Friedrich Ludwig Escher a Cuba), facendo coltivare da schiave e schiavi zucchero, caffè, cacao, cotone o riso, ma nella maggior parte dei casi rimasero in Europa e delegarono la gestione dei loro affari ad amministratori in loco. Per loro, le piantagioni rappresentavano importanti investimenti di capitale. Tra le imprese esemplari a questo riguardo, attive in quel periodo in Asia e Africa, ne spiccano tre. La prima è la Gebrüder Volkart, azienda di import-export fondata a Winterthur e Bombay, che divenne una delle principali esportatrici di cotone indiano. Riuscì ad affermarsi in un settore e in una regione estremamente concorrenziali, costruendo pazientemente delle relazioni di fiducia con gli operatori economici locali. La seconda si collocava nell'Algeria francese, dove la Compagnie genevoise des colonies suisses de Sétif, fondata da capitalisti di Ginevra, costituì una delle rare esperienze svizzere di insediamento e colonizzazione agricola (colonie svizzere). La terza si situava nella Costa d'Oro britannica (Ghana). Grazie all'influsso di capitali basilesi, vi si sviluppò un gigante del commercio svizzero nell'Africa subsahariana, la Missions-Handlungs-Gesellschaft (MHG, Basler Handelsgesellschaft), diretta – in modo inconsueto – dalla Missione di Basilea (missioni). La MHG si distinse anche per un'altra particolarità: si specializzò nella produzione e nel commercio di cacao (cioccolato), di cui il Ghana divenne il più grande fornitore mondiale.

La Missione di Basilea nella Costa d'Oro all'inizio del XX secolo. A sinistra: Frauen reisen zum Markt («Donne si recano al mercato»). Lastra di vetro colorata, 1900-1911 ca.; a destra: Gottesdienst in den Krobo-Plantagen (Goldküste) [«Culto religioso nelle piantagioni Krobo (Costa d'Oro)»]. Cartolina postale colorata, 1901-1917 ca., 9 x 13.9 cm (Archiv Basler Mission, Basilea, QD-34.001.0014 e QQ-30.027.0331).
La Missione di Basilea nella Costa d'Oro all'inizio del XX secolo. A sinistra: Frauen reisen zum Markt («Donne si recano al mercato»). Lastra di vetro colorata, 1900-1911 ca.; a destra: Gottesdienst in den Krobo-Plantagen (Goldküste) [«Culto religioso nelle piantagioni Krobo (Costa d'Oro)»]. Cartolina postale colorata, 1901-1917 ca., 9 x 13.9 cm (Archiv Basler Mission, Basilea, QD-34.001.0014 e QQ-30.027.0331). […]

Benché si potrebbero citare altri esempi di Svizzeri e Svizzere implicati nella tratta transatlantica, nella schiavitù e nella colonizzazione, più difficile risulta valutare la portata di questa partecipazione senza correre il rischio di esagerare oggi quello che un tempo era taciuto o minimizzato. Uno dei modi per evitarlo è paragonare il coinvolgimento economico della Svizzera nell'impresa coloniale con quello di una potenza rappresentativa come la Gran Bretagna. Il suo Impero durò a lungo, si estese su tutti i continenti, in tutte le declinazioni possibili e costituì la piattaforma di un'intensa circolazione di uomini, merci e capitali. Su questo sfondo, la Svizzera appare come relativamente poco impegnata nell'espansionismo europeo oltremare. Nel XVIII secolo, al culmine della tratta transatlantica, i Britannici, in particolare, organizzarono il trasporto oltreoceano del 40% dei sei milioni di persone catturate in Africa per essere ridotte in schiavitù nelle Americhe; la Svizzera fu responsabile del 2% ca. delle deportazioni.

Profil du massif éthiopien – sol et habitants. Infografica di George Montandon, litografia tratta dal suo studio «Traversée du massif éthiopien, du désert somali à la plaine du Soudan (1909-1911). Étude comparée des zones parcourues et de leurs habitants», uscito su Le Globe. Revue genevoise de géographie, vol. 51, 1912, pp. 47-64 (Ecole normale supérieure de Lyon; persee.fr, DOI: 10.3406/globe.1912.5239).
Profil du massif éthiopien – sol et habitants. Infografica di George Montandon, litografia tratta dal suo studio «Traversée du massif éthiopien, du désert somali à la plaine du Soudan (1909-1911). Étude comparée des zones parcourues et de leurs habitants», uscito su Le Globe. Revue genevoise de géographie, vol. 51, 1912, pp. 47-64 (Ecole normale supérieure de Lyon; persee.fr, DOI: 10.3406/globe.1912.5239). […]

Se alla luce di questo confronto le relazioni tra la Svizzera e i territori colonizzati appaiono di piccola entità, è in gran parte perché furono indirette e puntuali. Emerge quindi che nella tratta transatlantica, ad esempio, gli Svizzeri furono dei commercianti di schiavi e schiave di circostanza e che questo tipo di operazione fu una fra le tante altre attività economiche, marginale e frazionaria. La loro partecipazione alla tratta fu tardiva e di breve durata: iniziò due secoli e mezzo dopo la prima spedizione verso le Americhe e si protrasse solo per una cinquantina d'anni, nella seconda metà del XVIII secolo. Questa fase di attivo coinvolgimento «svizzero» fu contraddistinta da un lato dall'intensificazione del «traffico vergognoso», che bloccava grossi capitali e si svolgeva in un contesto fortemente concorrenziale, e dall'altro dall'accentuazione dei rischi legati alla tratta. In termini di persone, merci e capitali mobilizzati, per gli Svizzeri la fornitura di carichi fu una forma di intervento nella schiavizzazione di Africane e Africani molto più rilevante che la partecipazione finanziaria diretta, probabilmente perché il prospettato profitto del trasporto era, se non più elevato, almeno molto più sicuro che quello del commercio di esseri umani vero e proprio.

Considerando i territori colonizzati come luoghi di smercio dell'industria svizzera, risulta invece che dall'inizio del XIX secolo l'America latina, l'Asia e l'Africa offrissero, a gradi diversi, delle soluzioni di ricambio ai mercati che in Europa avevano subito un temporaneo stallo, garantendo così lo sbocco di una parte variabile della produzione svizzera. Tuttavia, non tutti i porti di smercio oltremare erano redditizi. Quelli in Asia, dove il livello di sviluppo era relativamente elevato, erano difficilmente accessibili, spingendo le imprese esportatrici a innovarsi e a ritagliarsi delle nicchie di mercato di qualità. Laddove il livello era piuttosto basso, come in Africa, i settori economici meno dinamici erano poco stimolati a trasformarsi. Anche in questo caso, per gli imprenditori svizzeri i mercati oltremare erano un'opportunità economica fra le altre; né particolarmente importanti o duraturi, a causa della loro eterogeneità potevano generare effetti molto diversi.

Negozio in miniatura, 1770-1790. Legno dipinto e materiali diversi, 78 x 45 x 45-48 cm, ex proprietà della famiglia Zellweger (Historisches Museum Basel, Inv. 1916.210).
Negozio in miniatura, 1770-1790. Legno dipinto e materiali diversi, 78 x 45 x 45-48 cm, ex proprietà della famiglia Zellweger (Historisches Museum Basel, Inv. 1916.210). […]

Contrariamente a quanto avvenuto per il movimento contro la schiavitù, dal XVII secolo in Svizzera non si levarono voci contro il colonialismo. La grande maggioranza delle persone di nazionalità svizzera insediate nelle colonie europee, fino agli anni 1950, era contraria all'idea di decolonizzazione. Quando in quel periodo la Confederazione avviò la propria politica di aiuto allo sviluppo (cooperazione allo sviluppo), incentrata sull'Africa subsahariana, la promosse con un richiamo alla neutralità e alla non appartenenza alle ex potenze imperiali. Il ruolo della Svizzera nelle trattative legate agli accordi di Evian, che misero fine alla guerra d'Algeria, contribuì ad accrescere le simpatie di cui godeva nei Paesi decolonizzati del cosiddetto Terzo mondo. Non esitò a servirsi di questo bonus per favorire l'allacciamento di relazioni economiche con le nuove nazioni indipendenti.

Ricadute culturali del colonialismo in Svizzera

Una delle impronte più profonde lasciate dal colonialismo in Europa è la diffusione del concetto di «civilizzazione», vero e proprio sistema di pensiero del XIX secolo. In Svizzera la retorica «civilizzatrice» non differiva da quella degli Imperi coloniali europei. Questa visione del mondo, che considerava il cristianesimo come unica fonte di salvezza, il libero scambio il vettore del progresso materiale e il sapere occidentale una verità oggettiva, giustificava l'espansionismo coloniale razionalizzandone l'insita violenza e trasformandolo in atto di filantropia. L'argomentazione dell'Europa portatrice di «civiltà», che veicolava le teorie razziste dell'epoca, consentiva di superare delle contraddizioni di fondo, in particolare quelle che opponevano la scienza alla religione.

Fino alla prima metà del XX secolo, numerose riviste e società erudite in Svizzera legittimavano l'impresa coloniale sottolineando la sua valenza «civilizzatrice». Lo testimonia l'ambito delle scienze geografiche, dove numerosi missionari ed esploratori, tra cui Paul Berthoud, Alfred Bertrand, Fritz Ramseyer e Henri-Alexandre Junod, difesero l'opera di «elevazione» del grado di civiltà dei popoli colonizzati, specialmente in Africa. Naturalisti quali i cugini Paul e Fritz Sarasin (Asia meridionale) e antropologi come Rudolf Martin (Malaysia) ed Eugène Pittard (Balcani) contribuirono allo sviluppo delle presunte scienze razziali, che stavano alla base del discorso «civilizzatore». Lo stesso vale per la ricerca universitaria, come illustrano le opere e i percorsi accademici di Louis Agassiz, Auguste Forel e Carl Vogt. Il medico George Montandon, simpatizzante del regime nazista (nazismo), esemplifica infine le derive del razzismo «scientifico» europeo (eugenica, antisemitismo).

Nel XIX e XX secolo queste convinzioni falsamente scientifiche vennero diffuse tramite vari canali: editoria (case editrici), insegnamento (scuola, educazione religiosa), oggetti della vita quotidiana, eventi pubblici, manifesti, radio e cinema. Tanto grande fu la varietà dei supporti, quanto semplicistico il messaggio, riassumibile nello svilimento delle popolazioni colonizzate. In Svizzera erano ad esempio molto popolari le «esposizioni di popoli» a vocazione turistica, dove persone con origini extraeuropee, rinchiuse in parchi, giardini zoologici o botanici, dovevano inscenare un'immaginaria quotidianità «esotica», calcata sugli stereotipi razzisti dell'epoca. Tra il 1855 e il 1940 Zurigo e Basilea furono (con Parigi e Amburgo) tra le città europee dove si organizzavano più manifestazioni di questo genere, che comprendevano altre forme d'intrattenimento (spettacoli, mostre). A titolo di esempio si può citare il «villaggio nero», allestito parallelamente al «villaggio svizzero» durante l'esposizione nazionale del 1896 a Ginevra.

Fotografie di esposizioni coloniali. A sinistra: nel Parc de Plaisance dell'Esposizione nazionale di Ginevra del 1896. Fotografia di Antoine Elie Chevalley, 1896 (Bibliothèque de Genève, 47p expo 1896 44 13); a destra: ad Altstetten, alla periferia di Zurigo. Fotografia, agosto-settembre 1925 (Collezione Rea Brändle, Zurigo; modificazione: DSS).
Fotografie di esposizioni coloniali. A sinistra: nel Parc de Plaisance dell'Esposizione nazionale di Ginevra del 1896. Fotografia di Antoine Elie Chevalley, 1896 (Bibliothèque de Genève, 47p expo 1896 44 13); a destra: ad Altstetten, alla periferia di Zurigo. Fotografia, agosto-settembre 1925 (Collezione Rea Brändle, Zurigo; modificazione: DSS). […]

Nell'Europa caratterizzata dal processo di nation building (nazione), la costruzione di un'alterità e il confronto diretto con essa favorì l'affermazione delle identità nazionali, analogamente a quanto accade per ogni concezione identitaria. In Svizzera il colonialismo contribuì a forgiare l'immagine di un Paese integrato nel concerto delle nazioni europee, con il diritto – secondo le affermazioni di Alexandre Gavard a Ginevra nel 1898 – di sfruttare le colonie e il dovere di «civilizzare» le popolazioni indigene. Questa autorappresentazione andava di pari passo con una «retorica della piccolezza», secondo la quale gli Svizzeri, percepiti come una popolazione montanara e neutra (popolazioni pastorali), grazie al loro ingegno avrebbero superato i limiti geografici e demografici del loro Paese. Parte integrante dei valori nazionali elvetici già nel XIX secolo, un secolo dopo le Alpi stimolarono la ricerca di un homo alpinus helveticus, presunta personificazione della «razza» originaria degli Svizzeri. Questa idea fu poi tuttavia scartata quando i teorici della «razza» sostennero che i Confederati appartenevano, come i loro vicini europei, a un mondo «bianco» e «civilizzato». Dopo la fine della seconda guerra mondiale (accordo di Washington, 1946) e con l'avvio della decolonizzazione (accordi di Evian, 1962), questa visione fu progressivamente sostituita da una nuova tradizione identitaria, quella della Svizzera internazionale, dispensatrice di buoni uffici, aiuto umanitario e terra di rifugio per profughi.

Nel XIX secolo i legami tra la Svizzera e il colonialismo furono tematizzati in proclamazioni e discorsi pubblici, come documenta l'elogio entusiasta dei colonizzatori e degli esploratori svizzeri da parte di Numa Droz a Berna nel 1891. Nel XX secolo questa connessione scomparve dalla narrazione storica ufficiale, come le migliaia di Svizzeri che dal XVII secolo avevano partecipato alle guerre coloniali. Se i racconti nazionali celebravano il ruolo dei mercenari confederati nell'Europa dell'ancien régime, la realtà dei militari assoldati da potenze estere nel XIX e XX secolo non era più compatibile con i valori liberali (liberalismo) della Svizzera dopo la fondazione dello Stato federale.

Lugano. Monte Bré. Visto da Paradiso. Cartolina postale realizzata nel 1920 dal fotografo ed editore Emil Götz a Lucerna, 9 x 14 cm (Archivio storico della città di Lugano, CART_ILL_807).
Lugano. Monte Bré. Visto da Paradiso. Cartolina postale realizzata nel 1920 dal fotografo ed editore Emil Götz a Lucerna, 9 x 14 cm (Archivio storico della città di Lugano, CART_ILL_807). […]

Gli studi postcoloniali sottolineano il nesso tra i pregiudizi legati al genere, ossia la relegazione delle donne a un ruolo subalterno (ruoli sessuali), e gli argomenti di legittimazione dell'ideologia colonialista. Fondata su una gerarchizzazione delle classi sociali e delle «razze», postulava che l'«uomo bianco» si trovasse in cima alla piramide sociale. Nella storia del colonialismo tale tipologia di attori è particolarmente ben rappresentata, mentre le persone ridotte in schiavitù, specialmente le donne, vi compaiono solo in maniera puntuale. Grazie a studi recenti, i percorsi di alcune donne, tra cui Pauline Buisson, nata schiava a Saint-Domingue (Haiti) e trasportata in Svizzera, hanno comunque assunto contorni più precisi. Silla (Johanna von den Berg), concubina di Louis Wyrsch originaria del Borneo, era la madre di Alois Wyrsch, il primo Consigliere nazionale di colore della Svizzera. La ricerca evidenzia anche l'implicazione di Svizzere nelle reti coloniali, ad esempio Clémence Royer, sostenitrice del darwinismo sociale e del colonialismo. La medica Bertha Hardegger si recò in Lesotho, dove fu meno discriminata nell'esercizio della sua professione che in Svizzera. Alcune cittadine svizzere, inoltre, ebbero grande influenza come missionarie nella diffusione dell'idea di «superiorità» dell'Europa.

L'espansione coloniale ebbe un impatto anche sulla scena artistica e culturale in Svizzera. Il movimento pacifista e anticonformista Dada per esempio, sorto a Zurigo nel 1915, si ispirò in particolare all'arte tradizionale africana e diffuse una visione idealizzata delle culture autoctone dell'Africa, dell'America del nord, dell'Asia e dell'Oceania. Una tendenza all'esotismo si riscontra in opere di Sophie Taeuber-Arp, Paul Klee e Alberto Giacometti, influenzate nella loro astrazione dal linguaggio formale dell'arte extraeuropea. Il retaggio coloniale traspare anche nella letteratura, pure in autori con un atteggiamento critico verso il razzismo, come Max Frisch (il «maschio bianco» dei Critical Whiteness Studies). E non da ultimo si riflette nel linguaggio corrente, con espressioni come «vivere da nababbo» o aller chez le toubib (andare dal medico).

Sul piano architettonico, il paesaggio urbano e rurale della Svizzera fu arricchito anche grazie a patrimoni accumulati tramite partecipazioni nella tratta transatlantica o nel commercio con le colonie. A Neuchâtel, Jacques-Louis de Pourtalès e Auguste-Frédéric de Meuron fecero costruire due case di cura, l'Hôpital Pourtalès (1808, che porta ancora il nome del fondatore) e l'Hospice de Préfargier (1849), mentre David de Pury contribuì all'ammodernamento della città, legandole la totalità dei suoi beni. Anche regioni più periferiche conobbero simili sviluppi. I fratelli Giuseppe e Pio Soldati, ad esempio, tornarono in Ticino dopo aver fatto fortuna a Buenos Aires. Membri dell'élite economica ticinese, edificarono ville monumentali, fondarono scuole e asili infantili, costruirono strade e sostennero delle parrocchie. In Appenzello Esterno il patrimonio architettonico comprende edifici realizzati da commercianti, arricchitisi grazie al commercio con le colonie. Jakob Zellweger, imprenditore tessile attivo nel commercio triangolare, nella seconda metà del XVIII secolo a Trogen fece realizzare una sontuosa dimora.

Espositore Perrier, fotografato nel 1990 da Micheline Hilber per il catalogo della fabbrica di cioccolato Villars SA (Bibliothèque cantonale et universitaire de Fribourg, Fonds Leo et Micheline Hilber, 24806).
Espositore Perrier, fotografato nel 1990 da Micheline Hilber per il catalogo della fabbrica di cioccolato Villars SA (Bibliothèque cantonale et universitaire de Fribourg, Fonds Leo et Micheline Hilber, 24806). […]

Nel XIX e XX secolo le élite politiche urbane onorarono benefattori o scienziati (tra cui David de Pury e Louis Agassiz a Neuchâtel) intitolando loro strade e piazze o edificando monumenti. Dal secondo decennio del XXI secolo la presenza nello spazio pubblico di figure implicate in via diretta o indiretta nello sfruttamento delle colonie o sospettati di razzismo fu messa in discussione. L'Università di Neuchâtel, ad esempio, nel 2019 rinominò l'Espace Louis Agassiz in Espace Tilo Frey. L'anno successivo, varie città svizzere (tra cui Neuchâtel, Zurigo e Ginevra) avviarono un dibattito sul loro retaggio coloniale, riprendendo un tema sollevato da gruppi di militanti antirazzisti sull'onda del movimento Black Lives Matter. Confrontati con il problema della «decolonizzazione» delle loro collezioni, i musei hanno intensificato la ricerca sulla provenienza degli artefatti e la riflessione su eventuali restituzioni. L'accresciuta sensibilità dell'opinione pubblica per le tracce del colonialismo e del razzismo ha inoltre spinto alcune aziende a rivedere la denominazione di certi prodotti (dolce «Testa di cioccolato») o a indagare in maniera critica il proprio passato coloniale.

Riferimenti bibliografici

Link

Suggerimento di citazione

Bouda Etemad; Fabio Rossinelli: "Colonialismo", in: Dizionario storico della Svizzera (DSS), versione del 18.09.2024(traduzione dal francese). Online: https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/026457/2024-09-18/, consultato il 15.07.2025.