9.1.1747 Ginevra,21.11.1805 Ginevra, riformato, di Ginevra. Avvocato, procuratore generale e politico ginevrino, sostenitore del colonialismo e abolizionista.
Discendente di un'antica famiglia riformata che aveva annoverato numerosi notabili locali, Jean-François Butini era figlio di Jacob Butini, commerciante e membro del Consiglio dei Duecento, e di Susanne Adrienne Françoise Rocca, figlia di un pastore riformato. Dopo aver frequentato le scuole superiori e l'Accademia di Ginevra (lettere e filosofia), fece carriera nel campo della giustizia (avvocato nel 1769, procuratore generale nel 1782 e nel 1791, coredattore di un progetto di Codice civile nel 1796) e fu attivo in politica. Membro del Consiglio dei Duecento (1775), dell'Assemblea nazionale dopo la rivoluzione ginevrina (1793), del Comitato e del Consiglio legislativo (1794 e 1795), fu inoltre castellano di Peney (1777), poi di Saint-Victor e Chapitre (1779). Le fonti non attestano un matrimonio o dei figli.

Patrizio impregnato dallo spirito dell’Illuminismo, nel 1771 Butini pubblicò un romanzo epistolare – Lettres africaines; ou histoire de Phédima et d'Abensar – che, a lungo dimenticato, ha recentemente attirato l’attenzione di storiche e storici. Nell'opera, ambientata in uno scenario immaginario dell'Africa occidentale, racconta la relazione amorosa tra due giovani, di cui spezza il destino trasformandoli in vittime disumanizzate della tratta di schiave e schiavi (schiavitù). L'aspetto originale è l'inserimento nella narrazione di un piano per la liberazione delle persone schiavizzate. Il racconto va considerato come un progetto abolizionista (abolizionismo) nel quale Jean-François Butini (parente, tra l'altro, di Ami Butini, proprietario di una piantagione schiavista) intendeva dimostrare che l'emancipazione risultava vantaggiosa tanto per i padroni e per lo Stato coloniale e metropolitano (colonialismo) quanto per le schiave e gli schiavi stessi. Secondo questo piano, la loro liberazione avrebbe impedito rivolte che perturbavano la produzione coloniale e minacciavano la vita dei padroni e della popolazione bianca, in forte minoranza. La loro emancipazione li avrebbe convertiti da pericolosi nemici in leali difensori delle colonie. Inoltre, sarebbero stati utili anche all'Europa, poiché le persone nere, libere e salariate, grazie al loro potere d'acquisto, avrebbero rappresentato un nuovo sbocco per i settori di esportazione della madrepatria. Il progetto di Butini riteneva che il principale beneficio per le persone ridotte in schiavitù non fosse tanto la conquista della libertà o della dignità umana, quanto l'aumento della loro speranza di vita, tramite una diminuzione dell’elevato tasso di mortalità. Si trattava quindi di una liberazione vista dalla prospettiva dei padroni, che avrebbero così potuto evitare i costosi e ripetuti acquisti di deportati e deportate dall'Africa.
Nel programma di Butini si mescolavano in modo paradossale radicalismo e conservatorismo. Contrariamente alla maggioranza degli abolizionisti della sua epoca, che si immaginavano un'uscita «lenta» dalla schiavitù, egli non concepiva la liberazione di schiave e schiavi come un processo graduale, con l'obbligo per le future persone liberate di riscattare la propria libertà lavorando per diversi anni senza retribuzione per i loro padroni. Per Butini, l'abolizione doveva essere immediata e incondizionata. Su questo punto, fu senza dubbio avanti rispetto all'epoca. D'altra parte, si allineò alla ben rappresentata categoria di abolizionisti che sostenevano il colonialismo. Era infatti convinto che le élite bianche, per preservare i loro privilegi di classe garantiti dal sistema coloniale, avessero tutto l'interesse a cedere parte del loro assolutismo e ad abbracciare la causa abolizionista.